Storia della Coltivazione del Riso Vercellese dagli Inizi a Chicchediriso ( parte seconda )

La coltivazione del riso, dalla metà del Settecento, ha cambiata radicalmente la campagna piemontese, dal punto di vista economico e sociale.

La superficie agraria destinata alla coltivazione del riso era di molto aumentata, più che raddoppiata, grazie all’abbandono di culture di sussistenza e al recupero dei terreni paludosi.

Le colture di grano, di segale e di granoturco si erano molto sviluppate. Tuttavia non esisteva alcun accordo o progetto riguardante le colture dei cereali inferiori.

Progredì la produzione dei gelsi e dei bachi da seta. Il raccolto di bozzoli era pressoché raddoppiato, tenuto conto anche del costante aumento dei prezzi di mercato e dell’intenso lavoro d’esportazione.

Tra l’inizio e la metà dell’800 era cresciuto il peso specifico delle aree di Vercelli e di Torino, mentre l’Astigiano e il Cuneese, Ivrea, Mondovì e Pinerolo ne avevano perso.

Aumentò di parecchio il prezzo dei terreni. Nel 1850-60 il valore ad ettaro di un fondo a campi e vigne superava già le 70 lire, mentre un ettaro a risaia aveva raggiunto il prezzo di 80 lire.

Anche il valore commerciale delle derrate agricole era cresciuto sia per il frumento che per il vino e il riso.

Con l’afflusso di capitali alla terra in concomitanza con l’aumento della popolazione rurale, si crearono i presupposti per una graduale modifica del sistema fondiario.

L’influenza di Cavour nella coltivazione del riso

Durante il periodo di Cavour solo le vecchie famiglie dell’aristocrazia provinciale erano riuscite a gestire bene i loro affari e le loro terre con efficacia, al fine di conservare le propria posizione sociale o addirittura migliorarla.

I terreni migliori erano diventate proprietà delle famiglie della borghesia provinciale, ma una quota cospicua dei fondi posti all’asta era finita nelle mani dei contadini e degli agricoltori più moderni

Anche diversi conduttori erano riusciti a raggiungere una certa indipendenza con l’acquisto di qualche giornata di terra.

La cultura patriarcale e tradizionalista dei ceti contadini era ancora scarsamente motivata ad intraprendere una vera rivoluzione agraria.

Comunque i mutamenti avvenuti nella distribuzione della proprietà terriera a vantaggio dei piccoli coltivatori avevano modificato in parte gli antichi equilibri della società piemontese.

Tuttavia non riuscirono a far perdere l’egemonia dei grandi proprietari fondiari, che avevano maggiori rendite e la maggior parte delle cariche amministrative.

Nonostante l’introduzione in periodo cavouriano di nuove imposte dirette e un sensibile aumento di quelle sui trasferimenti, l’imposta sui terreni rimase sostanzialmente stabile.

La crescente espansione di piccoli e medi produttori si rivelò un fattore di rallentamento nei tempi e nel processo di sviluppo delle campagne.

Infatti, la terra non rappresentava tanto un investimento, quanto piuttosto il mezzo per occupare i componenti della famiglia. La produzione era proporzionata alle necessità di ogni giorno per la sopravvivenza, al fine di consentire il mantenimento del proprio status sociale.

Il perno fondamentale dell’attività produttiva era quindi la famiglia, il cui spirito di compattezza e di coesione era sinonimo di autosufficienza, più che di incremento delle risorse.

La coltivazione del riso dopo la metà del diciannovesimo secolo

Tra il 1850 e il 1860 nelle pianure del Vercellese e del Novarese vi erano le più moderne organizzazioni capitaliste dell’epoca, con manodopera di salariati. Allo stesso tempo nel Milanese e nella Lomellina andavano migliorando le tecniche di rotazione e dei prati irrigui.

Il continuo crescere delle risaie favoriva lo sviluppo di grandi tenute e fattorie con un gran numero di lavoratori salariati come braccianti e giornalieri.

Si cominciarono ad intravedere anche i fittavoli con una media di 4 o 5 ettari di terra.

Vercellese e Novarese erano ormai diventati dei rilevanti mercati che davano lavoro a vaste masse d’immigrati e braccianti stagionali.

Leri e Montarucco

Nel 1835 Camillo Cavour assunse la direzione della tenuta di Leri e Montarucco.
Leri si estendeva su una superficie di 1261 giornate, 17 tavole e 9 piedi, pari a 480 ettari; Montarucco su 1235 giornate, 30 tavole e 8 piedi, pari a 471 ettari.

Cavour cominciò a dirigere Leri con un bagaglio notevole di conoscenze, tratte sia dagli studi che dalle visite all’estero, ma con una superficiale conoscenza delle sue terre.

La sua principale preoccupazione era quella di una gestione che potesse dare risultati nell’immediato ma senza potere programmare profondi rinnovamenti, che avrebbero sicuramente richiesto molto tempo e investimenti importanti, che all’epoca non poteva sostenere.

I primi anni da imprenditore furono dedicati allo studio attento di molte pratiche che gli consentirono di essere presentato come uno degli artefici del rinnovamento dell’agricoltura nel Vercellese, ma la sua attenzione fu rivolta all’agricoltura nella misura in cui in essa vedeva uno strumento di sviluppo economico generale.

Nel caso piemontese le maggiori risorse erano riconducibili ai prodotti provenienti dai campi, dalla sua agricoltura, e la trasformazione dei prodotti era senza dubbio un veicolo trainante per lo sviluppo industriale e per creare occasioni di buoni affari.

Il primo episodio di un certo rilievo fu il tentativo di inserire fra le colture del Vercellese la barbabietola da zucchero.

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